Io sono sempre stata un’allergica, un’allergica grave fin da bambina. Non che questo sia un grosso problema, o che mi limiti in qualche modo. Lo so, so, più o meno, cosa non posso mangiare o toccare e giro con una bustina con cortisone e antistaminico sempre con me. I miei amici lo sanno e, quando mi vedono frugare in borsa, mi chiedono:”Ti stai premedicando?”.
Faccio molta attenzione soprattutto al cibo e ai farmaci, perchè sono quelli che mi danno le reazioni più violente e, anche se con gli anni l’intensità delle reazioni è sempre più grave, è tutto sotto controllo, tutto va bene. Già.
Ieri ero di guardia 12 ore e, verso la fine del turno, cerco conforto alimentare in cucina. Un bel pacco di dolcetti di pasticceria, dono della figlia di una paziente. Leggo come al solito tutti gli ingredienti, non trovo niente di sospetto, ne mangio uno. Ottimo. Finisce che ne mangio tre. Sono pessima, lo so, ma è stata una lunga giornata. Ristorata dagli zuccheri torno a lavorare.
Dopo qualche minuto inizio a sentire i primi sintomi, prurito in bocca, gli occhi mi pizzicano. Ecco, ci siamo, sapevo che prima o poi anche la frutta secca mi avrebbe fregato. Vaffanculo, prendo la mia bustina dalla borsa, mi calo le mie pasticche. Siamo in Rianimazione, la mia collega e i tre infermieri stanno cenando in cucina. La mia collega mi vede:
“Stai bene?”
“Ma no , niente, mi han fatto allergia i dolcetti, adesso prendo cortisone e antistaminico e passa.”
“Mi devo preoccupare?”
“No, state qui tranquille, vado al computer, un quarto d’ora e torno come nuova.”
Mentre scorro annoiata la posta elettronica sento che la reazione avanza. Che palle, di solito quando sono così solerte passa subito, sto proprio invecchiando, ho i tempi di reazione più lunghi. Poi lo schermo si vede sempre peggio, gli occhi lacrimano decisamente, faccio fatica ad aprire le palpebre, non ho più due occhi, ma due mandarini gonfi e pulsanti. Anche le labbra sono gonfiate come per una siliconata mal riuscita, inizio a non sentire la lingua. Sono piena di pomfi su tutto il corpo. Provo a chiamare la mia collega, anche la voce è cambiata. L’edema sta scendendo sulle vie aeree. Cazzo.
Mi alzo e, reggendomi al muro (anche la pressione si deve essere abbassata), arrivo alla porta della cucina, riesco a dire:”Non sta passando.” Sento il rumore di quattro sgabelli che si spostano, si sono alzate tutte in piedi e la voce della mia collega:”Cazzo, Paola!”.
In un istante le infermiere mi prendono e mi portano nella camera singola, è l’unica vuota. Mi ritrovo sdraiata nel letto, mi stanno mettendo una flebo.
“Non farmi Ranitidina e Bactrim, sono allergica, peggiora l’edema e poi mi devi intubare.”
“Cazzo, Paola, però! Dimmi cosa posso farti.”
Tutti i principali farmaci d’urgenza vanno bene, mi è già successo e non mi hanno fatto male, speriamo sia così anche oggi.
La pressione va bene, me la misurano, e io stessa mi tengo due dita sul polso. Mi compiaccio delle mie resistenze vascolari periferiche. Brave ragazze, se tenete botta così non andiamo in shock anafilattico, giuro che da domani elimino grassi e fumo per ricompensarvi.
Chiudo gli occhi, anche perchè ormai le palpebre non mi permettono altrimenti.
Dio mio, che prurito, tutto il corpo, dentro e fuori, ma ho imparato dalle esperienze passate a resistere, a non grattare fino a scorticarmi, poi l’allergia passa e i graffi da rissa tra gatti restano.
Intorno a me scherzano, mi sfottono un po’, rido con loro, arriva anche il collega della notte. Io lo so che lo fanno per non farmi preoccupare, ma anche se ho gli occhi chiusi, conosco alla perfezione tutti i rumori di questo posto. Il brutto di sapere quello che sta succedendo, è proprio che sai quello che sta succedendo. Il rumore di rotelline significa che stanno portando in camera il carrello della urgenze con il defibrillatore, il collega che mi chiede cosa ho mangiato e a che ora, vuol sapere se sono a digiuno. Poi la frase, detta ridendo:”Apri grande la bocca”. Hanno paura di dovermi intubare. Rispondo farfugliando: “Sono un Mallampati I, mi intubi a occhi chiusi, non oltre il 7,0 che se no mi fai i granulomi”. Tutti ridono, ma sento il rumore della confezione. Sta aprendo un tubo del 7,0.
Poi, ad un certo punto tutto si ferma, ricomincio a sentire la lingua, riesco un pochino ad aprire gli occhi. Si è fermata. Non è sparita, ma la reazione si è fermata.
“Mi sento meglio”
“Si vede, ora stai lì tranquilla, stanotte resti qui.”
“Ma sono il tuo reperibile.”
“Adesso sistemiamo tutto, non ti preoccupare.”
Una veloce telefonata al primario, che incredulo e un pò allarmato, reagisce con una gragnuola di parolacce. Alla faccia dello sbandierato aplomb dei rianimatori. Un giro veloce di chiamate e i turni sono sistemati. L’assistenza ai pazienti è garantita e così si concentrano di nuovo su quella agli operatori sanitari. La sottoscritta.
In pochi minuti mi ritrovo con un tavolino con caricabatterie, telefonino, acqua, grissini e una copia di Vanity Fair saltata fuori da chissadove. Io amo le mie infermiere e non lo dirò mai abbastanza.
Chiamo mio marito, racconto tutto: ” Cazzo, Paola! (ormai è la frase del giorno) Resta lì, qui siamo lontani da tutto e io non posso fare niente di più. Resta lì e se devono farti la tracheo fai chiamare il mio capo che abita vicino e arriva subito, nel frattempo io arrivo”. Il senso dell’umorismo dei medici è qualcosa di irresistibile.
Dopo un pò sto decisamente meglio, inizio a mandare messaggi nella bottiglia agli amici. La mia collega-amica, dopo un’iniziale ed efficiente:”Ti porto un cambio, della biancheria?” prosegue con:”Fatti dei primi piani delle lesioni che pubblichiamo!” e giù faccine sorridenti. Un altro risponde con una espressione irriproducibile. Meno male che l’ha fatto lui, io non sarei riuscita a pronunciarla in modo chiaro, senza farfugliare. Un altro mi consola e mi butta un sasso nel lago:”Il tuo corpo sta cercando di dirti qualcosa, è ora che lo ascolti.”
Già, io così brava a leggere il corpo degli altri, ignoro sempre il mio. Da tempo prova a parlarmi e, inascoltato, ha iniziato a gridare. Chiudo gli occhi e inizio a pensare a ciò che non va, a quello che sto cercando di sistemare, a quello che prima o poi dovrò affrontare. No, stasera non ce la faccio, troppi pochi filtri, troppo inerme.
Riapro gli occhi e mi guardo intorno, hanno abbassato le luci. E’, però, impossibile dormire in questo posto.
Per la seconda volta in una serata sono orgogliosa di me stessa. Forse l’edema ha gonfiato anche il mio ego, oltre al mio viso. Sono orgogliosa del fatto di aver sempre aumentato le sedazioni dei miei malati per garantire il riposo notturno. Ho sempre avuto il sospetto che fosse molto difficile dormire qui, di notte. Ora ne ho la certezza. Le camere danno su un viale trafficato e il rumore delle auto è incessante. C’è, poi, l’inquinamento acustico interno: monitor degli altri malati, qualche allarme che salta, lo squillo del telefono, gli infermieri che lavorano, sussurrano, si muovono. I letti sono antidecubito, comodi, ma rumorosi, la compressione ciclica delle camere d’aria è continua: pffff, crick-crick, pffff… Poi c’è il monitoraggio a cui sei attaccato. Benchè io avessi una dotazione di minima, già non sapevo come mettere braccia e mani, non riesco a pensare a chi ha attaccato anche tubo orotracheale, dialisi, drenaggi e cateteri. Infatti loro sono sempre profondamente sedati.
Alla fine riesco a trovare una posizione più o meno comoda. Il potente antiistaminico in vena sta finalmente facendo il suo effetto associato narcotico. Chiudo di occhi, lascio salire la scimmia del sonno chimico e penso che, alla fine, è andato tutto bene.
Andrà tutto bene.