All’università ho studiato il Burnout così come ho studiato molte altre patologie curiose, pensando che mai e poi mai le avrei incontrate. Anzi, vi dirò di più, il burnout mi sembrava proprio una bufala, una di quelle cose descritte sui libri e mai accadute nella vita reale. Come è possibile ammalarsi di lavoro, come può un individuo adulto lasciarsi sopraffare dal lavoro? Poi sono diventata adulta io stessa, e ho lavorato, e ho capito.
Negli ultimi due anni ho assistito a casi di Burnout di colleghi molto diversi, tutti molto gravi, tutti ugualmente disperati e solitari.
Lungi da me fare critiche o abbracciare cause perse. Ho fatto da spettatore, in alcuni casi vicino e coinvolto, in altri mero testimone. Sempre sbalordita, sempre impotente.
Il nostro lavoro ci immerge ogni giorno nelle miserie umane, fatte di dolore e malattia, di terapie palliative, di famiglie non in grado di gestire i malati, di dolori fisici e morali, di domande, di domande a cui non sappiamo rispondere. Ho sempre pensato che questo ci aiutasse a scremare le superficialità, le frivolezzze della vita e ad andare al sodo. Ero fermamente convinta che masticare malattia e morte quotidianamente ci rendesse più capaci di goderci le piccole cose: una cena in casa, una gita in bici con i figli, un fine settimana lontano. Mi sbagliavo. Mi sbagliavo moltissimo.
Negli ultimi anni anche le condizioni lavorative dei medici sono cambiate. Non è più un lavoro da privilegiati, i turni sono massacranti, i riposi non vengono rispettati, gli stipendi sempre più smagriti, mentre tutti ti chiedono una soluzione, una cura. E se non la trovi, rischi pure una denuncia. Ora, capiamoci, non sono qui a pietire e nessuno ci ha obbligati a farlo, ma le regole sono queste. O ce la fai o schiatti. O dentro o fuori.
Mi ricordo un amico e collega che è precipitato, e ancora sta cadendo, nel buco del Burnout, lui ha trovato come valvola di sfogo (valvola che si è dimostrata miccia esplosiva) la relazione con una collega: “Paola, io dovevo avere un buon motivo per essere qui tutti i giorni e molte notti. Il lavoro non bastava, non bastava per non essere a casa e non stare con mio figlio e non sapere niente di ciò che capitava fuori da qui. E allora io venivo per lei. Io facevo tutte quelle ore in più perchè così potevo stare con lei.” Non so a voi, ma a me quel discorso non mi ha mai convinto.
Sicuramente questo lavoro logora e impegna e ti fa spendere energie fisiche e mentali. Spesso, per stanchezza, non riusciamo più a delineare i confini, a lasciare al lavoro le tragedie umane e a lasciare a casa le frustrazioni quotidiane e tutto si mescola in un calderone ribollente di cattivi presagi. E quando non riesci più a gestire la tua vita fuori dal lavoro, cerchi di riempire i vuoti con i successi lavorativi, ma non basta mai, perchè anche quelli sono fatti della stessa pasta dei fallimenti. Tutto fa volume, ma un volume che non riempie, che non basta a tappare i buchi di recite dei figli non viste, di cene con la moglie fatte saltare, di weekend al mare bucati.
Così alla fine qualcuno scoppia e si mette a urlare in ambulatorio e viene sottoposto a un TSO, qualcun altro tenta di ammazzarsi, qualcuno resta semplicemente fermo e accasciato come un sacco vuoto, anzi, come un sacco pieno di niente.
Io sono fortunata, io ci sono andata vicina, ma vicina tanto così, però ho molte frecce al mio arco e le ho usate tutte.
Innanzi tutto mio marito fa lo stesso lavoro, che sembrerà banale, ma non lo è. Se io, alle 20 di sera chiamo e dico: “Non so quando torno, arrangiati per cena, forse dormo qui perchè siamo nella merda” mi sento rispondere “Ok”. Perchè settimana prossima potrebbe succedere a lui e la risposta sarebbe la stessa. Questa complicità è molto difficile da ottenere da chi non fa questo lavoro. E’ possibile, ma molto difficile.
Io ho anche un’arma segreta, si chiama relazioni. Al di fuori di lavoro e famiglia ho tanti amici, distanti e che fanno lavori assai diversi.
Ebbene, io scappo.
Quando la pressione sale troppo e lavoro e casa si mescolano e si potenziano, io scappo. Fosse per un giorno o solo per qualche ora, io salgo in macchina, metto dei chilometri di distanza e mi vado a far curare. E’ una terapia fatta di chiacchiere ben lontane dal mio lavoro, fatta di cene dove nessuno muore, dove nessuno ha bisogno di me. Io medico malato mi faccio curare con dolcezza e piccole attenzioni. Poi riparto e, come arrivata, sparisco e mi ributto nella mischia.
Perchè a me piace. Mi piace essere mamma, moglie e anestesista, solo che ogni tanto è difficile e pesante e allora vado a farmi curare da chi medico non è per voi, ma per me. Oh, sì, solo per me.