Nei giorni di festa, soprattutto durante le feste di Natale, la Rianimazione assume, se possibile, una sfumatura ancora più triste del solito.
Se già, durante il resto dell’anno, nessuno viene da noi volentieri, a Natale e Capodanno siamo universalmente riconosciuti come il posto più lacrimevole del mondo. Intere filmografie e letterature più o meno colte, narrano di festività trascorse nei letti, o nelle corsie degli ospedali. Siamo la scenografia del Natale tragico, della festa col magone, dei cenoni con una sedia vuota e della fetta di torta messa da parte per essere trafugata, successivamente, in corsia.
Se i pazienti sono i tristi protagonisti, il personale non trasuda gioia. Per quanto, con il passare degli anni, sia stata fatta l’abitudine a lavorare nelle ore e nei giorni meno opportuni, passare Natale, o Capodanno, al lavoro fa ancora, francamente, girare le balle.
A ciò va, anche, aggiunto che la sequenza disordinata di festivi, prefestivi e superfestivi, fa sì che io faccia un casino micidiale e mi riduca a riconoscere i giorni dal numeri, rinunciando a collocarli all’interno della settimana, in una apnea lunga circa quindici giorni. L’unica cosa che resta immutata è che durante i festivi di giorno siamo in due rianimatori, per 12 ore.
Quello era uno di quei giorni, credo il primo Gennaio. O giù di lì.
Per necessità di turni e di famiglia, sia il personale medico, sia quello infermieristico, cerca di dividersi in due grandi blocchi: quelli che lavorano a Natale e quelli che lavorano a Capodanno. Questo crea due sotto-equipe che per circa una settimana lavora assiduamente insieme, passando più tempo lì che a casa.
Anche con i parenti dei ricoverati, e tra le famiglie stesse, si crea una sorta di strana complicità, una famigliarità forzata, dettata dalla contingenza, una cosa del tipo: “Preferirei essere a pranzo con lo zio Carlo, ma sono qui con voi e, sarà perchè lo zio Carlo è sempre stato un grandissimo rompicoglioni, sarà che, comunque, se siamo qui non siamo morti, mi va bene così.” E, quindi, scambi di auguri, panettoni aperti in cucina e caffè caldi distribuiti nelle stanze, che, a ben guardare, con lo zio Carlo tutto questo calore non c’è mai stato. Sorrisi larghi, che se ti sbagli ad allargarli ancora un po’, diventano smorfie di dolore e la maschera di festa crolla e con lei tutto lo sforzo che stai facendo per non piangere, ma la farsa, solitamente, regge bene e, al netto di brutte novità, di solito sono giornate che scorrono, quasi, serenamente.
Proprio a metà di un turno del genere, stavo facendo il controgiro pomeridiano, ovvero stavo passando da un letto all’altro per rivisitare i pazienti, controllare le terapie, o anche solo per essere certa che tutto stesse procedendo per bene. La nostra è una Rianimazione aperta, una in cui i parenti, due ogni giorno, possono stare al letto del malato dalle 14 alle 19, una vera innovazione rispetto alle vecchie abitudini, per cui potevano sostare per 30 minuti al giorno. Una novità per tutti, parenti e operatori. Ci siamo dovuti abituare entrambi, loro all’ambiente della Rianimazione e noi alla loro presenza, muta e attenta.
I malati, in Rianimazione, sono nudi nei letti, i loro corpi addormentati, indifferenti a ciò che li lega ancora al mondo dei vivi: tubi, cateteri, cavi. Loro dormono e noi siamo abituati ai loro corpi fragili e inerti, a toccarli, spostarli, girarli. Il tatto, la vista, l’olfatto sono l’unica arma che abbiamo per capire cosa stia succedendo dentro di loro, ascoltarli con tutti i sensi, senza poter ascoltare la loro parola. Un’intimità fisica che nella vita quotidiana non avremmo mai, ma che qui diventa inevitabile per comunicare e capire.
Nel momento stesso in cui i nostri pazienti ci concedono questa intimità, è come se la sospendessero con tutti coloro che fino a ieri l’hanno custodita. Se noi possiamo toccarli, se gli infermieri possono lavarli, i loro cari, a volte non possono e, anche quando potrebbero farlo, spesso non osano. E’ come se l’intimità dei corpi non potesse essere contemporaneamente pubblica e privata, scientifica e affettiva.
Stavo visitando una paziente di mezz’età, sprofondata nel coma, una visita in cui la toccavo, la auscultavo, cercando di farmi raccontare quello che non mi poteva dire. La sorella mi fissava, silenziosa e attenta dalla sedia dal lato opposto del letto. Una distinta signora, che sarebbe anche stata bella senza quegli occhi disperati, immagino che anche la paziente lo sia stata, prima dello sconcio passaggio della malattia.
Finisco la visita, sorrido a entrambe e mi allontano.
“Dottoressa, scusi?”
“Dica.”
“Volevo chiederle una cosa…”
“Stia tranquilla, signora, va tutto bene, è stabile.”
“No, volevo chiederle un’altra cosa.”
Sorrido per facilitarla.
“Ma io posso dare a mia sorella un bacio sulla guancia?”
D’un colpo, una mano mi acchiappa il cuore e me lo stringe in un pugno, il mio sorriso si congela. Penso ai mille baci che queste due donne si sono date in una vita intera, penso che oggi, che è festa, se una delle due non fosse quasi morta, si sarebbero baciate senza chiedere il permesso a nessuno, di sicuro senza chiederlo a me, che fino a una settimana fa ero una perfetta sconosciuta e, per certi versi, lo sono ancora. Una sconosciuta che, con la malattia si è, infilata di testa nella loro intimità, nella loro vita, nei loro corpi, tra i loro baci. Penso alle mie sorelle e non mi viene in mente nulla che possa impedirmi di baciarle e penso che, forse, a Natale, avrei dovuto baciarle di più.
E, invece, dico solo: “Certo, signora, che può baciarla.”
“Chissà se mi sente…”
Credo proprio di sì, credo che lo stia sentendo il mondo intero.