Non scappare 

“Paola, guarda, ti faccio vedere la foto di Francesca. Ieri sono andata a trovarla e sta benissimo.”

La mia Caposala parla, ma io non sento, perché sono troppo occupata ad attutire il colpo che la foto mi dà: una giovane donna in piedi sorride. Ai due lati ci sono due bambini piccoli in età prescolare. Sorridono anche loro.

Una foto qualsiasi tra migliaia di foto simili pubblicate ovunque e che, di solito, interessano solo i protagonisti o, magari, le nonne coinvolte, ma che in tutti gli altri evocano la medesima intolleranza: “Ma che palle, sai che cazzo me ne frega che tuo figlio ha superato l’esame di Judo…”

Io, però, accuso il colpo e chiudo gli occhi e mi ritrovo in piedi, due mesi prima. Sono in sala operatoria, in un’ora imprecisata della notte, ho freddo, la luce artificiale mi brucia gli occhi, per cui li ho chiusi, ho la fronte appoggiata al bordo di plastica del monitor del ventilatore e le braccia mi fanno male, perché da qualche minuto sto stringendo, sopra la testa, due sacche di sangue, affinché si svuotino il prima possibile.

“Uno…due…tre…cambio.” Questa è la formula che si usa, ad alta voce, per dire che, chi sta facendo un massaggio cardiaco, è stanco e vuole il cambio da un altro operatore. Sento un rumore di sgabelli, evidentemente chi inizia a massaggiare ha bisogno di un’altezza maggiore sul corpo. Immagino sia Linda, lei è piccolina.

Apro un occhio e vedo le sue braccia sottili, come quelle di mia figlia, che si muovono a ritmo regolare. Era reperibile da casa e, quando è stata chiamata in urgenza, non è riuscita nemmeno a cambiarsi e,ora, la sua maglietta nera, sotto la cappa di carta sterile, stride nell’azzuro asettico della sala operatoria.

Richiudo gli occhi perché voglio restare ancora per qualche secondo lontano da qui.

“Paola, che facciamo, ci fermiamo?”

“No, non ancora.”

Sono una vigliacca e non voglio uscire a dire ai parenti, fuori dalla sala, che lei è morta e non siamo riusciti a salvarla.

“È ripartita, riprendiamo.”

La voce della mia collega rimbomba nella mia testa vuota, questa volta apro entrambi gli occhi e guardo il monitor: il cuore è ripartito davvero.

“Dai, dai, veloce, cerchiamo di fermare l’emorragia prima che si arresti di nuovo.”

Il chirurgo si riappropria dello spazio sopra la pancia aperta: deve chiudere il buco da cui non vogliamo lasciarla scappare.

“Come sta?” Una domanda insensata a cui non so rispondere.

“Vai avanti, lei sta.”

Finisce l’intervento e le alzo le palpebre: midriasi pupillare fissa areflessica, che non è un buon segno.

“Abbiamo fatto tanta adrenalina, non significa niente.” La mia collega prova a trovare una consolazione.

Col cazzo che non vuol dire niente, vuol dire un sacco di cose e fanno tutte schifo, vuol dire che l’ossigeno al cervello non è arrivato per troppo tempo, vuol dire che, se non siamo riusciti a tenerla del tutto con noi se n’è andata solo una parte, quella buona, quella che ci fa essere persone e non cose, che se n’è andata la coscienza, la veglia, i suoi sentimenti, i rancori e le piccole gioie, mentre è rimasto solo il corpo vuoto. Forse mio marito ha ragione, forse sono solo una zuccona che non molla mai, che fa solo quello che vuole, ma soprattutto non fa quello che non vuole e io non volevo lasciarla scappare, insistendo per tenere qui la persona che lei non era.

“Abbiamo finito, cerchiamo di portarla in Rianimazione.”

Entro in reparto e la consegno ai colleghi del mattino che, nel frattempo, si sono preparati per il ricovero urgente.

Poche consegne professionali e lascio che mi tolgano la barella dalle mani, mentre faccio qualche passo indietro e li lascio lavorare. Io, ormai, non sono più buona a niente, nemmeno a restare in piedi, infatti indietreggio fino a trovare un muro su cui mi lascio scivolare fino al pavimento. In qualche modo il mio lavoro è finito, o forse sono solo finite le mie forze, quindi chiudo di nuovo gli occhi, perché voglio riposare un po’ e non vedere più niente.

“Hai visto che bella? Appena esce dalla riabilitazione passa a trovarci.”

Riguardo la foto con maggiore attenzione e noto i cerotti sulla gola e la flebo al braccio, anche la postura è quella di chi si è rimesso in piedi da poco, dopo una lunga fisioterapia.

Alla fine non sei scappata, alla fine sei rimasta qui.

“Hai ragione, è bellissima.”