[Questo post rientra in un progetto di scrittura collettiva, nato per contrastare il victim blaming, ovvero il fenomeno per il quale le vittime che denunciano un abuso, una violenza o una molestia, vengono attaccate da critiche, insinuazioni, o veri e propri insulti.
In questo progetto, pensato dopo un po’ di chiacchiere e confronto tra amiche, alcune di noi racconteranno la loro storia di abuso. Perché le vittime non si sentano isolate, perché la violenza è un fenomeno diffuso, ma non per questo accettabile, o giustificabile. Chi volesse partecipare al progetto può raccontare la sua storia (solo se vi va e se vi sentite tranquilli nel farlo) sui social con l’hashtag #quellavoltache]
Ora vi racconto la mia volta.
Ho pensato a lungo se parlare di alcuni fatti che mi sono capitati sul lavoro, perché in fondo questo è il blog di un medico che racconta di medicina. Potrei raccontarvi di quel professore di Medicina Interna che umiliava le studentesse facendo sempre la stessa domanda all’inizio degli esami:”Mi dica, come cucina un uovo all’occhio di bue? Perché, in quanto femmina, se non sa fare nemmeno quello, dubito sappia fare il medico.”
Oppure di quella volta che uno strutturato mi mandò a consegnare delle lastre a un collega e, dopo averlo avvertito per telefono, finì la telefonata dicendo:”Ma le lastre sono molto meno interessanti di chi te le porta.” Guardandomi dritta negli occhi e facendo l’occhiolino.
Oppure mille altri episodi di questo tipo che hanno corredato tutta la mia carriera.
La molestia più grave, però, l’ho subita a 11 anni e, anche se allora la medicina non era ancora entrata nella mia vita, voglio raccontarvela ugualmente, perché la tutela dagli abusi è anch’essa parte della tutela della salute dei pazienti.
A 11 anni ero già alta come adesso, una ragazzina impacciata in un corpo adulto, così alta da giocare come ala nella squadra di basket del quartiere. Nei fine settimana facevamo i tornei in giro per la provincia e, un sabato qualunque, i miei genitori non potevano venire a prendermi in palestra alla fine del quadrangolare.
L’aiutante dell’allenatore era amico di mio padre e si offre di riaccompagnarmi in macchina a casa.
Nessun problema, è un amico di mio padre, sulla cinquantina, un ometto piccolo e cicciottello, piuttosto simpatico.
Mi fa salire sul sedile di fianco al suo, io indosso ancora i calzoncini, le gambe lunghe da cicala. Sono contenta perché abbiamo vinto.
Al primo semaforo si ferma e mi mette una mano sulla coscia:”Di che classe sei?”
Io mi pietrifico, la domanda è innocua, ma il gesto no. Non capisco cosa mi faccia così paura, ma so che quella mano non dovrebbe essere lì.
Rispondo:”II G”
Lui ride:”Non intendevo la classe della tua scuola, ma il tuo anno di nascita!” E sottolinea il suo divertimento stringendo le dita sulla mia pelle nuda.
“Ah.” Non riesco a dire molto altro.
“Sembri più grande della tua età.”
Io non rispondo più e guardo fuori, spero solo di arrivare a casa il prima possibile.
La mano resta lì per tutto il tragitto, che, per fortuna, è breve. Davanti a casa provo a uscire dall’auto, ma lui mi trattiene per un braccio:”Non mi dai nemmeno un bacio?”
Avrei dovuto scappare, ma sono una ragazzina e i miei genitori mi hanno insegnato a essere educata con gli adulti. Mi avvicino e gli dò un bacio sulla guancia, lui fa per trattenermi, ma riesco a svincolarmi e a uscire.
Schiaccio il campanello con tutte le forze che ho, mi sento il cuore in gola, sapendo che mi sta fissando dal finestrino.
Poi la porta si apre e io scappo in casa. Mi infilo sotto la doccia con la sensazione di dovermi lavare via qualcosa che non so.
Non l’ho mai detto ai miei, ma non sono mai più andata alle partite, se non avevo la certezza che i miei genitori , o la mamma di qualche mia compagna, mi avrebbe riportata a casa.