Vale, non ti preoccupare

La mia amica Valentina è una delle persone più intelligenti che io abbia mai conosciuto. La Vale non è solo intelligente perché capisce le cose al volo, lo è perché ha un’intelligenza emotiva straordinaria e una capacità di leggere persone, situazioni e cose davvero rara, oltre a un ottimo senso dell’umorismo.

Valentina è un ottimo medico.

Non che nessuno ne avesse dei dubbi, fin dall’università: studiosa, preparata, attenta e assolutamente devota alla causa.

Una dei tanti stronzi, come noi, che nel SSN ci ha sempre creduto, ma davvero.

Sono mesi, forse anni, che, a turno, dichiariamo forfait. “No, basta, mi licenzio.” “Questo è l’ultimo Natale che passo qui dentro!” ecc…

Poi, ogni volta ci ripensiamo, poi ogni volta riscommettiamo su questo ronzino azzoppato e perdente che è il SSN e ci ricadiamo.

Perché l’amore tossico è così: mi fa stare male, ma può essere meglio, mi ferisce, ma io conosco la sua vera bellezza e altre stronzate declinate nelle più diverse forme.

Ma, come vi ho premesso all’inizio, Valentina è molto intelligente, sicuramente più di me, e una sera d’inverno mi scrive:”Ho fatto il test per MMG, sono entrata, ho appena mandato le dimissioni da ospedaliero e, male che vada, mi metto a lavorare a pIVA.”.

E io scoppio di felicità, perché la sua preparazione, che io conosco da 28 anni, la sua devozione e la sua etica, questo sistema qui non se la merita.

“Evviva! Hai fatto bene!”

“No, sono terrorizzata e addolorata per come stia morendo il SSN, ma non posso salvarlo io.”

No, amica mia brillante, non solo non puoi salvarlo tu, o noi, ma, a questo punto, siamo noi a doverci salvare da lui.

Vale, non ti preoccupare.

Andrà tutto bene.

Perchè sono ancora qui

A volerla analizzare del tutto, non c’è nessuna argomentazione che giustifichi la mia presenza qui.

Esistono, però , numerose attenuanti.

Fossimo in tribunale vorrei potermi difendere elencando tutti i pessimi e controproducenti motivi per i quali mi ritrovo ad essere un medico del SSN.

Innanzitutto sono pigra e pure un po’ viziata.

Mi piace lavorare nello stesso posto, con le stesse persone, da 13 anni.

Capisco che al profano sembri niente, ma in effetti, quando lavori, a me piace sapere chi è di guardia in Pronto, chi è il chirurgo, chi il ginecologo, chi il cardiologo, o il neurologo. Non cambia in nessun modo il fatto che trascorrerò lì dentro 12 ore, ma mi detta la mappa esatta della mia notte. Ok, sono tranquilla, mh, mi posso fidare, oppure no, mh, posso stare tranquilla, oppure no. È un metodo di sopravvivenza preventiva. Se conosci bene il tuo ambiente sai con quanti occhi aperti potrai dormire.

A me piace muovermi e nuotare nel mio brodo, so di chi fidarmi, di chi no, so dove potermi spingere. Conosco ogni piastrella, ogni passaggio sotterraneo, conosco il migliore caffè di ciascun distributore.

Ma non è solo questo. È una sorta di sogno romantico, un voler ostinatamente pensare che noi siamo quelli che vegliano. Quelli che sono pronti quando state male, quelli che ci sono sempre.

Non è nemmeno una bugia, noi ci siamo, ma ci sono anche i gettonisti, che io non condanno, fanno solo bene a farsi pagare, ma, poi, ci siamo solo noi.

E nessuno di noi vuole medici stanchi e demotivati, ma noi siamo stanchi e demotivati e quindi?

Non ho nessun motivo per essere così legata a questo posto e a questa causa, ma è il mio posto e la mia causa.

Un po’ come gli Apache in cima alle colline, consapevoli di fine ingrata e sanguinaria. Bene così, venite sotto, non molleremo per questo.

Bene, non servirà a niente, ma ci troverete sempre qui.

Facciamo l’appello

Bene, ragazzi, fate silenzio e prendete posto.

State composti e sedetevi con ordine che, qui, tra pandemia, postpandemia, licenziamenti di massa e cooperative non si capisce più un cazzo.

Facciamo così: i Decreti Calabria tutti a sinistra, anzi tutti a destra, poco importa, mettetevi tutti vicini e non rompete il cazzo, che qui non siamo in Calabria e gnegnegne, tanto dovete coprire i turni come tutti, anche se siete specializzandi.

I primari in pensione, rientrati dalla finestra per fare marchette in libera professione, li mettiamo dietro la lavagna con le orecchie da asino.

Noooo, professore, scherzavo, venite qui, in prima fila, ben centrali, un po’ più in là, ecco! Perfetto! Così siete in perfetta traiettoria per le cerbottane dell’AAROI, hanno fatto delle palline con la carta delle proposte del nuovo CNNL. Se state fermi nessuno si farà male, qualche pallino in testa e passa la paura.

I gettonisti dove sono? A coprire i turni? Ok, fanno bene, qualcuno la baracca deve pur portarla avanti.

Quelli che si sono licenziati in massa per fare i medici di base si siedano fuori dalla porta, oh, sia chiaro, avete tutta la nostra invidia, ma andatevene fuori da qui.

Bene, chi ho dimenticato?

Ah, sì, i disgraziati con spirito romantico, quelli che sono rimasti nonostante tutto. Niente, sedetevi dove volete, fate cosa cazzo vi pare, nessuno può dirvi niente, comunque, non vi caga nessuno.

Bene, iniziamo…

(Rumore di tafferuglio, entra un manipolo di uomini incappucciati)

“Fermi tutti! Questa è una rapina!”

Ma, Santo Dio, MEU, toglietevi quelle calze dalla testa, non siamo più nemici, non ce ne frega un cazzo che intubiate, o mettiate centrali, rilassatevi, ormai siamo amici, tanto, alla fine, noi come voi, siamo finiti a fare i turni in ambulanza. Dai, prendete posto, non c’è problema.

Bene, ci siamo tutti?

Ottimo. Grazie ragazzi per il lavoro svolto, ve lo dico perché non ve l’ha detto nessuno.

E, adesso, coffee break.

Davvero?

No, non ci sono i soldi neanche per pagarvi il caffè.

Cazzomene

Due anni sono un sacco di tempo.

Se, poi, li passi lavorando in modo oppressivo e capriccioso, sono tantissimi.

Ogni ondata ho abbassato il baricentro sempre di più per smorzare l’impatto. Alla prima pieghi le gambe, alla seconda sei in ginocchio, alla terza ti sdrai: passatemi sopra, cazzomene.

Perché sei stanco e non ne puoi più.

Milioni di parole, di lodi, di insulti, di provvedimenti, di disubbidienza.

E tu che vorresti solo poter riposare, organizzare una cena con gli amici, un weekend al mare, una detartarasi.

Poco importa essere stati angeli e eroi e, poi, demoni e assassini.

Cazzomene.

Ora vorremmo solo riposare.

Andare in Spagna, nel mio posto del cuore, camminare fino a Plaja Cristal al mattino e bere un vermouth a Casa Pedro in un pomeriggio assolato.

Perché tali e tante sono state le brutture, i dolori, le frustrazioni e i rospi da ingoiare che non ci sono ricompense adeguate da ricevere.

Non le voglio.

Vorrei solo tornare a fare ciò che so fare e che ho fatto in modo straordinario, ma solo perché è il mestiere più bello del mondo.

Oddio, non so se sia il più bello, diciamo che è un tipo.

Uno di quei tipetti guasconi, che mentre ne elenchi i difetti te ne innamori.

E resti lì, in questo limbo di passione e disappunto, ma non te ne vai mai davvero.

Perché è tutto ciò che sai fare bene, e ora ne hai la prova.

Lo hai fatto bene e per tanto e per tanti e, anche se non l’hanno capito, alla fine, dai: cazzomene.

Caffè e sudore

Oggi ho bevuto solo caffè.

No, non ho mangiato.

Ho solo bevuto, acqua e caffè.

Nelle mie intenzioni ci sarebbe pure stato un pranzo della mensa: cavolfiori esausti e pasta stracotta.

E, invece, niente, non ho fatto in tempo, non l’ho ordinata nei rigidi confini temporali della mensa aziendale.

Acqua e caffè.

C’è di peggio e, comunque, non avrei avuto tempo.

Ora non vi annoierò raccontando di un turno assurdo e massacrante, di come una bombola dell’ossigeno mi sia caduta, in TAC di taglio sull’alluce.

Di un turno normale che dovrebbe essere straordinario ma non lo è.

Sono in Covid, oggi, e l’umidità è simile a un pomeriggio a Saigon.

Dopo 4 ore la divisa di cotone che porto sotto la Tyvek è fradicia di sudore.

Faccio fatica a concentrarmi, perché mi si sta ghiacciando addosso e non si lavora bene con rivoli freddi di sudore lungo la schiena, se devi concentrarti e pensare a cose importanti.

Quindi esco, e mi scuso con gli infermieri, “Esco pochi minuti, il tempo di cambiarmi”.

Ho dimenticato il cambio in macchina, mi lavo, ma la biancheria resta zuppa e la divisa, nuova e asciutta, si bagna, di nuovo, in un secondo.

Mi guardo allo specchio e in questi aloni zuppi vedo mille cose, vedo chi non sa cosa facciamo qui, cosa ogni giorno dobbiamo affrontare, che se solo potessi farvi vivere una mia giornata forse, ma solo forse, capireste il valore di certe scelte. Sono giornate zuppe di caffè e sudore, no proclami e dogmi, caffè che bevo e acqua che sudo. E come me, chi è con me, ogni giorno, ad arginare cose che nemmeno immaginate.

(Le foto sotto sono quelle della mia divisa, dopo quattro ore durante le quali ho provato ad essere un bravo medico. Uno di quelli che si suda l’anima.)

Buone Feste

Buone Feste a noi, che siamo sempre rimasti dove già eravamo.

Buone Feste a noi, che ci siamo spaventati, preoccupati, isolati.

Buone Feste a noi che ci abbiamo provato, e, poi, ci siamo arresi, e, poi, ci abbiamo riprovato.

Buone Feste a noi e alle videochiamate ai parenti, ad ogni volta che abbiamo dovuto comunicare un peggioramento, una situazione insanabile, un lutto.

Buone Feste a noi che abbiamo ascoltato gli ultimi saluti, le conversazioni con i nipoti, i saluti dei coniugi, dei figli, di chi a loro voleva bene.

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Come una lumaca

L’emergenza Covid è finita da tempo e la vita è ripartita, timidamente, ai suoi ritmi normali.

Sì, certo, mascherine, distanze e gel disinfettanti a fiumi, ma, tutto sommato, abbiamo imparato a conviverci, anche sul lavoro: tamponi, zone grigie, ecc… Niente a che vedere con quello che abbiamo vissuto nei mesi scorsi.

Sono passate settimane da quando ho indossato per l’ultima volta una tuta Tyvek.

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Un altro mondo

Quando salgo dalla Rianimazione pulita alla Ria Covid faccio sempre lo stesso percorso, a dirla tutta faccio anche sempre gli stessi gesti: prendo dallo zaino la biancheria pulita che indosserò dopo la doccia, la tuta Tyvek che teniamo nei cartoni e la FFP3, ascensore e salgo di due piani, il breve codice numerico e sono nel corridoio posteriore delle sale del secondo piano, dove due mesi e una vita fa c’erano le sale operatorie di Ortopedia e Oculistica, dove raramente mettevo piede, c’erano i colleghi che si occupavano prevalentemente di quello e io, diciamocelo, sono sempre stata una mezzasega nei blocchi periferici, partivo con tutta la manfrina e, poi, finivo a Diprivan e maschera laringea. Continua a leggere