Un altro mondo

Quando salgo dalla Rianimazione pulita alla Ria Covid faccio sempre lo stesso percorso, a dirla tutta faccio anche sempre gli stessi gesti: prendo dallo zaino la biancheria pulita che indosserò dopo la doccia, la tuta Tyvek che teniamo nei cartoni e la FFP3, ascensore e salgo di due piani, il breve codice numerico e sono nel corridoio posteriore delle sale del secondo piano, dove due mesi e una vita fa c’erano le sale operatorie di Ortopedia e Oculistica, dove raramente mettevo piede, c’erano i colleghi che si occupavano prevalentemente di quello e io, diciamocelo, sono sempre stata una mezzasega nei blocchi periferici, partivo con tutta la manfrina e, poi, finivo a Diprivan e maschera laringea.

Poi, due mesi fa, in una settimana circa, abbiamo rivoluzionato tutto e, da quelle sale operatorie abbiamo ricavato 7 posti di terapia Intensiva Covid, laddove una volta non potevi appoggiare una cappa piombata nel posto sbagliato senza incorrere nelle ire della caposala, abbiamo spostato, smontato e rimontato attacchi per l’ossigeno, centraline per il circuito in rete dei monitoraggi, con una violenza disperata che solo l’arrivo imminente della tempesta può conferire.

Solo che non era una tempesta, era lo tzunami e, dopo quella terapia intensiva, ne abbiamo aperta un’altra.

Ma mica lo sapevamo. Lo intuivamo, lo avevamo sentito raccontare, ma solo quando arriva ne intuisci la potenza distruttiva e ti rendi conto di quanto ne avevi sottovalutato la portata.

Me lo ricordo il giorno in cui abbiamo aperto, ero arrivata un po’ in anticipo al turno del pomeriggio, erano le 13,30 e, dopo essermi cambiata, ero entrata in Ria pulita, quando il mio responsabile, senza alzare gli occhi dal computer mi ha detto: “Sei pronta?”

E io, filibustiera sbruffona, con la mia migliore faccia di cazzo, ho allargato le braccia:”Certo!”

“Bene, allora vestiti e andiamo.”

Non ero pronta per niente, o almeno, ero pronta tecnicamente, sapevo vestirmi e usare tutti i presidi, ma in sei ore abbiamo saturato tutti i posti e, no, a questo nessuno è pronto.

L’arrivo dell’onda è emozionante solo quando la aspetti, perché quando arriva davvero ti caghi sotto e pensi solo a come riuscirai a restare a galla.

Da quel giorno sono passati due mesi e tanti pazienti, abbiamo imparato a lavorare bardati come palombari, abbiamo imparato a come posizionare bene la mascherina perché con gli occhiali è un casino e se sbagli solo di pochi millimetri dovrai lavorare per ore con le lenti appannate, abbiamo imparato a camminare piano, per non scivolare con i calzari sul linoleum, a parlare e respirare piano, altrimenti iperventili e ti gira la testa, a muoverti solo con movimenti essenziali, altrimenti sudi e il sudore freddo ti bagna la divisa, che ti si ghiaccia sulla pelle, a mettere i guanti di mezza misura in più, altrimenti il doppio guanto, dopo ore, ti stringe la punta delle dita, che, dopo poco, diventano urenti e insensibili. Abbiamo imparato a scrivere i nostri nomi con il pennarello sulle tute, così chi lavora con te sa con chi sta parlando, abbiamo imparato a riconoscerci dagli occhi e dalla camminata che anche le voci, con tutti quegli strati, sono attutite. Abbiamo imparato a prescrivere terapie semplificate a orari standard, così che gli infermieri non debbano impazzire dietro alle nostre elucubrazioni. Abbiamo imparato a tenere gli smartphone con mano ferma, quando i pazienti videochiamano i parenti, perché se piangi troppo forte e la mano ti trema, loro non riescono a vedere bene, abbiamo anche imparato a ingoiare le lacrime, perché se piangi dentro i DPI è un casino, gli occhiali si appannano e la mascherina si inzuppa e lavorare con le lacrime negli occhiali e la mascherina zuppa di muco oltre a fare schifo è anche scomodo da morire.

Abbiamo imparato ad avere pietà e pazienza, perché è una malattia lunga e infingarda e la fretta è la sua migliore amica.

Entro nella zona dello spoglio e appoggio la divisa e la biancheria che indosserò all’uscita, poi entro in stanza vestizione, era lo spogliatoio donne, una vita fa.

Lo stesso rito ogni giorno, mi metto i presidi uno alla volta, prima il primo paio di guanti. Non penso a niente, non penso a chi è a casa, non penso a me, perché mi sto trasformando, tutto ciò che è fuori da lì, deve restare fuori, perché se ti distrai, è più probabile che tu faccia un errore.

Poi la tuta, che scricchiola, mentre la togli dalla busta, sarà la mia pelle per le prossime ore, la mia corazza.

I calzari, la cuffia e la mascherina, mentre la testa è sempre più vuota, attenta solo a mettere gli elastici della maschera in modo che non scendano di taglio sulle orecchie perché è un dolore insopportabile, che fa venire i brividi nella schiena, dalle orecchie alla schiena come una scossa elettrica, fai attenzione metti gli elastici bene in cima alla testa.

Infine il visor, gli occhialoni sugli occhiali da miope non ci stanno e il secondo paio di guanti.

Mi sposto di fronte alla porta che mi separa dalla zona Covid, sono limpida e vuota, perché, se devi entrare in un altro mondo, devi essere un’altra persona, sempre tu, ma altra e concentrata come non lo sei stata mai. Batto le mani due volte, come per far apparire un genio della lampada che non verrà.

Apro la porta, respiro, non mi sono mai sentita al posto giusto come qui, faccio un passo, ormai ci sei.

Vai, che ti aspettano.